La setta dei Fraticelli del Massaccio

La moderna critica storica e il Morghen, in particolare, affermano che la crisi della civiltà e del misticismo medioevale hanno origine dal contrasto tra gli interessi ecclesiastici e quelli del singolo individuo.

La coscienza religiosa laica era nata tra le mura delle città, tra le arti, tra i mestieri più disparati ed era anti-ecclesiastica, in quanto intendeva affermare il proprio «io» religioso, la propria personalità spirituale, senza vincoli imposti universalmente dall’ alto. Non agli uomini intendevano infatti ubbidire gli eretici, ma soltanto a Dio.

I movimenti ereticali

Da questi fermenti morali e spirituali dei laici scaturirono i movimenti ereticali. La loro dottrina, ad ogni argomentazione, si appoggiava sugli Evangeli e le Epistole di S. Paolo. La setta dei Fraticelli era condannata dai Pontefici e i vari stati di allora seguivano, in materia religiosa, le decisioni di Roma. C’era, infatti il pericolo che le nuove idee religiose sconvolgessero ordini politico-sociali già costituiti, ma spesso alquanto precari e forzatamente imposti.

Esse rappresentavano un grave pericolo per il papato, per la cristianità e soprattutto per l’ ordine francescano, in seno al quale si erano diffusi in gran numero. Nella storia della chiesa le eresie erano antiche quanto quest’ultima, ma ad un certo momento ed in particolare con i Fraticelli, avevano assunto il carattere di un autentico movimento popolare.

A differenza dei catari ascetici e mistici, i Fraticelli avevano assorbito la parte più pratica delle teorie di Pietro Valdo. Il frate Angelo Clareno viene considerato il fondatore degli Spirituali in Italia.Questi ricevette da papa Celestino V il permesso di chiamare se stesso ed i seguaci: «poveri eremiti del papa Celestino».(2)

C’era quindi tolleranza da parte del pontefice, almeno fino a quando il movimento era ristretto ad una esigua schiera. Il Clareno vantava umili origini e soleva affermare, nelle sue lettere: «nos qui sumus rustici».«poveri eremiti del papa Celestino».(2) C’era quindi tolleranza da parte del pontefice, almeno fino a quando il movimento era ristretto ad una esigua schiera.

Il Clareno vantava umili origini e soleva affermare, nelle sue lettere: «nos qui sumus rustici».«poveri eremiti del papa Celestino».(2) C’era quindi tolleranza da parte del pontefice, almeno fino a quando il movimento era ristretto ad una esigua schiera. Il Clareno vantava umili origini e soleva affermare, nelle sue lettere: «nos qui sumus rustici».

La fondazione della setta dei Fraticelli

Gli anni che precedettero la fondazione della setta, da parte del Clareno furono densi di ardore religioso e di agitazione politica. La Marca di Ancona assistette alla sfilata di lunghe teorie di flagellanti. Questa atmosfera pesante, dove la speranza si mescolava alla paura, dovette agire sul fondatore dei «poveri religiosi». Fin dal tempo di Federico II la causa imperiale aveva guadagnato accesi partigiani nella Marca di Ancona e l ‘imperatore si era impadronito di questo territorio già nel 1239.

Dopo la morte di lui le città che lo avevano benevolmente accolto erano, più o meno spontaneamente, ritornate all’obbedienza del papa. In questo periodo, per tanti centri della Marca, il pontefice non era più soltanto la potenza mistica a cui si ricorreva come suprema autorità morale, ma rappresentava un signore come gli altri. Il Clareno,in mezzo alle lotte che allora opponevano città contro città, conservò una posizione neutrale.

Non era né guelfo, né ghibellino: nessuno poteva accusarlo di essere da una parte o dall’ altra. Era solito dire: «Ecclesia non habet partem». E cioè «La chiesa non apparteneva ad alcuna fazione». Fu, invece, influenzato dai rappresentanti della prima generazione francescana e soprattutto da frate Leone.

I dissensi tra francescani e fratelli

La terra marchigiana era popolata da frati che furono esempio per l’ordine, sia per abitudine di vita che per l’alta loro dottrina. I francescani erano ormai divenuti più attivi, sia nei modesti centri locali, sia alla corte dei re o nelle grandi città universitarie. Erano, però travagliati da una profonda crisi interna. I dissensi in merito alla povertà dividevano, ormai, l’ordine in due correnti decisamente opposte .

La fondazione di grandi conventi, la carriera brillante di tanti francescani predicatori e dottori sembravano agli «Zelanti» o agli «spirituali» derogazioni alla regola e allo spirito del fondatore. Per essi contavano solo la vita umile e ritirata e la penitenza. Nel mezzogiorno della Francia, intanto, Ugo di Digne e Pietro Olivi si mostravano entusiasti per gli ideali di una vita povera e subivano la stessa influenza degli spirituali d’Italia: quella di Gioacchino da Fiore.

Nella nostra zona i fermenti degli Spirituali erano iniziati con la morte di fra Leone: si era, infatti sparsa la voce che i due ordini mendicanti di S. Francesco e di S. Domenico sarebbero stati trasformati ed avrebbero potuto possedere beni.

Il concilio di Lione

Il concilio di Lione stabilì, frattanto, che tutti gli Ordini istituiti senza l’approvazione della Santa Sede dovevano essere soppressi. L’assoluta povertà dei Frati Minori, quella voluta dal fondatore, esisteva ormai più in teoria che in pratica.

In questo periodo Pietro Olivi, capo degli Spirituali di Provenza, si creava sempre nuovi seguaci. Egli personificava, meglio di ogni altro, per la sua attiva intelligenza, I’accortezza di talento e I’energica volontà, la tendenza degli animi che, alla fine del XII secolo, andavano sempre più allontanandosi dalla comunità francescana per realizzare I ‘ideale di povertà concepito da S. Francesco e dai suoi primi discepoli.

Allo scopo di sbarazzarsi degli Zelanti, la cui propaganda s’intensificava sempre più,un consiglio di cinque ministri provinciali decise di condannarli quali eretici, alla prigione perpetua. Così fu fatto e i difensori troppo ardenti della povertà vennero condannati.

Gli Zelanti marchigiani che avevano certamente derivato le loro teorie da Gioacchino da Fiore furono, nel 1276 incarcerati; erano Pietro di Macerata, Tommaso ed Angelo da Tolentino, Marco da Montelupone e Pietro da Fossombrone.

Lo stesso Angelo Clareno, assertore nella Marca, come si è detto, delle convinzioni Spirituali, fu trattenuto, per oltre un trentennio, in varie carceri. Dal papa Clemente V  venne imprigionato, prima in Ancona, quindi a Roma, e incatenato come eretico. Tra gli Spirituali vi fu anche un medico e un teologo, amico di Clemente V: Arnaldo da Villanova. Era dotato di una personalità di notevole rilievo, molto superiore a quella dei poveri e degli umili che costituivano la maggioranza dei beghini provenzali.

Arnaldo da Villanova condanna i Francescani

Egli scrisse, più volte, ai papi del suo tempo per indurli ad accettare i suoi piani di riforma della cristianità. Contro coloro che pensavano solo a divertimenti e a banchetti, Arnaldo lanciò il suo grido di Ezechiele: «Finis venit, venit finis» . Condannava, pertanto quei francescani che avevano sminuito la primitiva pietà della regola, che erano divenuti entusiasti delle ricchezze, affascinati dalla scienza e che inseguivano le più alte cariche ecclesiastiche.

«Gli zelanti della vera povertà francescana sono ingiustamente ed inumanamente perseguitati -continuava Arnaldo -imprigionati e messi a morte. Eppure i veri figli della verità sono essi» e di ciò si mostrò sempre convinto.

L ‘Ehrle divise in due correnti gli Spirituali locali: l’una guidata da Corrado da Offida, l’altra da Angelo Clareno. Il Frugoni non condivide tale divisione, in quanto eccessivamente ristretta e semplicistica. Da riscontrare che il Clareno si rivolgeva, nella maggior parte delle sue lettere, ai fratelli spirituali della città di Roma e della Marca di Ancona ( urbis Romae et Marchiae Anconitanae). Ciò significava che localmente la setta da lui capeggiata si era particolarmente diffusa.

Il concilio di Vienna del 1311

Il concilio di Vienna del 1311, intanto, invitava tutti gli assertori della prima povertà a rimettersi al volere dei superiori dell’Ordine francescano. Era I ‘ultimo tentativo conciliante di Clemente V. Crebbe frattanto il malcontento tra gli zelatori pauperisti che in Toscana, impadronitisi colla violenza di alcuni conventi elessero loro generale Enrico da Ceva.

L ‘elezione di Giovanni XXII significò, per gli spirituali un inasprirsi delle persecuzioni ed anche la definitiva, chiara condanna delle loro idee, definita dalla Bolla di tale pontefice «Sancta Romana» del 30 dicembre 1317, eretiche, perseguitabili e ostili alla Chiesa.

Le decisioni pontificie colpivano tutti gli irregolari del mondo francescano, operanti fuori dell ‘inquadramento gerarchico. Abolivano, inoltre i privilegi concessi agli Spirituali da Celestino V che li aveva sottratti all’obbedienza dei loro superiori francescani e che erano conosciuti come «poveri eremiti di papa Celestino», comunemente poi detti «Fratelli della povera vita o Fraticelli». «Frates pauperes» erano anche definiti gli Spirituali di Provenza, come risulta dai registri dell ‘Inquisizione tolosana.

Sia i pauperisti italiani che quelli di Provenza avevano due principali intenti in comune: ritorno della Chiesa alla santità evangelica e soprattutto stretta osservanza delle prime regole francescane.

Dopo le decisioni a loro avverse di Giovanni XXII, anche gli spirituali italiani cambiarono nome e, sempre stretti attorno a Clareno, si chiamarono correntemente «fraticelli de paupere vita» ; come ci indica il processo del 1334 e ci attesta Gentile da Foligno, dicendo: «frate Liberato. capo et padre di tutti gli Fraticelli della povera vita».

La vita dei Fraticelli

Questi si erano creati un modo di vivere particolare : non mangiavano carne, non bevevano  vino e abitavano lontano dagli uomini, rinunciavano all’ascolto delle messe, né credevano che il papa fosse il papa, né che la Chiesa fosse la Chiesa.

Flavio Biondo, storico del Cinquecento e quindi molto più vicino a quel periodo nel suo lavoro di geografia storica: «Italia illustrata» rende tutto molto più semplice e veloce. Egli dice che Ludovico il Bavaro, privato dell’impero da papa Giovanni XXII creò a Roma, come antipapa il francescano Pietro di Corbario.

Questi fu allora accusato da una certa Giovanna, figlia di Matteo, di aver convissuto con lei per cinque anni come marito. Venne imprigionato in Avignone, dove morì, ma numerosi furono i suoi seguaci, detti Fraticelli dell’Opinione, in quanto affermavano che né Giovanni XXII, né altro suo successore erano veri pontefici. L ‘eresia, continua sempre il Biondo, si diffuse in Italia e in Grecia, specie in Atene.

Proprio durante il lungo pontificato di Giovanni XXII, durato diciotto anni, i Fraticelli ripresero maggior ardire. Secondo il Frugoni e la critica recente, non esisteva differenza alcuna tra gli Spirituali e i Fraticelli. Entrambi, infatti, avevano un intento comune: la povertà, ed un avversario identico: il papato, ritenuto avido e corrotto.

L’eresia della setta dei Fraticelli

Nel processo del ’34 Francesco Vanni di Assisi dichiarò che i Fraticelli non consideravano peccato commettere atti impuri con donne; ritenevano, inoltre, che la Chiesa, per meglio peccare si fosse trasferita in Francia, «ultra montes» .

La curia di Roma, per essi, aveva perduto ogni autorità in quanto carnale e ricca, con eccessivo fasto di porpora e di ori. L ‘unica ritenuta autorevole era la loro stessa Chiesa che si era conservata spirituale e povera.

I Fraticelli ebbero per capo, sempre, lo stesso Angelo Clareno che usava un sigillo gentilizio rappresentante le nozze di S. Francesco con la Povertà ed un frate, genuflesso, in primo piano. Esisteva, come risultava dal processo, una vera e propria organizzazione: il Clareno risiedeva a Subiaco e da qui emanava gli ordini a tutti i conventi della setta, sparsi per I ‘Italia.

Esistevano ministri provinciali ed un visitatore generale, che era, allora, Nicola di Calabria. Quando Martino V, reduce dal concilio di Costanza, passò nel 1418 a Firenze, i Fraticelli, le cui idee si erano nel frattempo, qui molto diffuse, fuggirono dalla Toscana, e trovarono più sicuro rifugio nella Marca di Ancona.

Uno stato di estrema confusione politico-sociale, economica travagliava allora Jesi e la sua valle. Due anni prima alcuni castelli avevano aperto le porte al capitano di ventura perugino Braccio di Montone il quale, avendo prigioniero Carlo Malatesta, sperava di impossessarsi delle sue terre, ma con il trattato di pace del 18 febbraio 1417 tra il legato pontificio e il capitano si stabilì di restituire quelle località alla Chiesa.

L’arrivo dei Fraticelli nella valle dell’Esino

Conosciamo la data dell’arrivo dei Fraticelli nella valle esina: il 1419, ma è possibile che essi vi si fossero, in precedenza stabiliti.

Tra la gente più bisognosa e scontenta è noto che essi ebbero, sempre, i più numerosi seguaci. La setta aveva anche qui inaugurato, come spesso avviene per tali associazioni, in tutta segretezza e nell’ombra più fitta la propria esistenza.

Approfittarono, come si è accennato, delle lotte locali, di quelle tra i Simonetti, signori di Jesi, sospetti di tirannide e gli stessi cittadini; dei raccolti estremamente scarsi che avevano generato una fiera pestilenza, e degli echi dei saccheggi e delle stragi compiuti dai soldati di ventura.

Scelsero, per le solide mura e i naturali, ripidi pendii a ovest, il castello di Maiolati, come luogo più sicuro ed isolato.

Qui costruirono la loro roccaforte, vestivano rozzi sai, dicevano di essere più perfetti degli Osservanti e non ritenevano peccato illecite unioni o indebite appropriazioni. Per questo Giacomo della Marca non esitò a definirli «ladruncoli sfrontati e presuntuosi» .

Nell’interno del castello, forse sulla torre civica, avevano fatto fondere una campana, con questa iscrizione: «Nell’anno del Signore 1419, al tempo di frate Gabriele, vescovo pastore della chiesa di Filadelfia e ministro generale dei frati minori: Gesù, Maria, Francesco».

Il «Dialogo contro i Fraticelli, in lingua volgare», scritto da Giacomo della Marca  per confutare la dottrina degli stessi, ci rivela pure l’esistenza a Maiolati (allora Maioretto, Maiorata e Meliorata) di un imperatore, Guglielmo, nobile di quel castello e di un certo Ranaldo, eletto successivamente papa. Il capitano di ventura Braccio da Montone, al servizio di Alfonso di Aragona, avendo notato la loro grande disponibilità di denaro, si vantava di averli ridotti alla vera povertà della regola francescana, poiché li aveva privati di certi beni.

Da chi provenivano quelle ricchezze e quei denari ? Secondo Giacomo della Marca erano frutto dei loro molteplici inganni nei confronti di vedove e di ingenue donne. Già in Assisi gli stessi eretici, dopo aver cacciato, in nome della povertà di Cristo e degli Apostoli, i Frati Osservanti dal convento delle Carceri, vennero a loro volta, dalla popolazione indignata, costretti, a sassate, a lasciare la cittadina. Avevano anche qui abusato, come nel 1373 a Perugia, della debolezza femminile, sottraendo denaro e oggetti di valore.

Tutto, secondo loro infatti doveva essere in comune; mogli, beni, figli; nessuno doveva possedere, ma ogni cosa goduta collettivamente.

Erano, queste, anche le teorie di un certo fra Dolcino di Novara, per cui la Chiesa aveva ormai perduto ogni autorità ricevuta da Gesù Cristo; il pontefice romano non poteva assolvere dai peccati, avendo rinnegato la povertà di Pietro, suo diretto capostipite; donne e uomini potevano coabitare e procreare liberamente; era migliore la preghiera fatta in un porcile o in una stalla piuttosto che quella in chiesa.

Giacomo della Marca viene inviato da Papa Martino V

Martino V inviò Giacomo della Marca, nativo di Monteprandone per combattere quelle teorie. Alcuni, probabilmente esagerarono le loro opinioni, raffigurandoli peggiori di quello che veramente erano. Così anche le aspre torture, usate allora normalmente da ogni giudice, detto «braccio secolare» estorcevano spesso misfatti, in realtà mai commessi.  Secondo altri, invece erano soliti riunirsi promiscuamente uomini e donne in una grotta e, senza luci, praticare «peccaminose laidezze».

Il Barlozzo del Massaccio

Di tale opinione è anche il Wadding. Protetti dai ghibellini, mentre anche Jesi e i centri vicini erano dominati da tale fazione, i Fraticelli moltiplicarono le loro allegre danze. Sembra che avessero una casa al Massaccio (Cupra Montana)  e disponessero di certi sotterranei che erano stati in età imperiale il serbatoio dell’acquedotto cuprense, sito nell’attuale via G. Bovio. Secondo la tradizione, qui avrebbero celebrato la festa del Barlotto.

Così scrive, nel suo poema in latino, Panfilo Sanseverinate: «Si entra nel sotterraneo di una casa, in mezzo ai compiacenti silenzi della notte. … Corrono la vecchia, il giovane, i  fanciulli  e le ragazze sposate, l’uomo maturo unito alle nuore siede con le donne sposate».

Si sa che anche in altre parti visitavano segretamente i loro accoliti e celebravano, in grande riservatezza,nel cuore della notte, riti segreti destinati quasi sempre a degenerare in autentiche orge.

Panfilo, nei 72 versi dedicati al singolare rito notturno, non nomina la località in cui esso si sarebbe celebrato, mentre in una edizioni più tarda, sul finire del Settecento, Giuseppe Colucci così specifica il luogo dei convegni:

«II castello di cui intende qui il Poeta fu Maiolati, dove aveva le sue conventicole l’empia setta dei Fraticelli, così che ebbe a soffrire di essere totalmente diroccato per ordine di Martino V, diretto per l’esecuzione ad Astorgio Vescovo di Ancona colla data di Roma Kal. Junii, Pontificatus anno XI. Fu demolito dunque nel 1426 e due anni dopo, per breve dello stesso Sommo Pontefice, fu permesso che si riedificasse».

La nota, però contrasta con gli indici dell’edizione stessa e delle precedenti che, alla voce Massaccio, parlano del baccanale qui celebrato. Flavio Biondo pur non citando il luogo fa evidente riferimento a questa consuetudine, dicendo che i Fraticelli riunivano le più belle donne in una grotta e facendo cantare, da sacerdoti e chierici, alcuni inni cristiani fino alla mezzanotte, ricevevano l’ordine dal loro sommo sacerdote di congiungersi, invocando prima lo Spirito Santo.

Ogni bambino che ne nasceva era poi portato in queste grotte e passato, con tanta rapidità e tanto a lungo, per le mani di tutti i presenti, fino a che non moriva. Colui nelle cui mani spirava veniva creato da loro pontefice massimo .

Degli altri fanciulli, nati da tali riunioni notturne, usavano far questo: i sacerdoti si riunivano insieme, arrostendoli sulle braci, fino a ridurli in polvere, li ponevano quindi, in un vaso con vino, il cui miscuglio facevano poi bere ai novizi.

Ritenevano inoltre che i piccoli non provassero alcuna sofferenza mentre erano bruciati; questo assicurò, persuasa e in confessione, una donna a Giovanni da Capistrano.

Il recipiente usato era un barilotto o barlozzo pieno di vino, probabilmente misto a sostanze eccitanti, oltre alle suddette ceneri di neonati. Altra prova è il blasone popolare di «barlozzari», rimasto intatto nel tempo e riportato anche dal Ginobili, col quale venivano gratificati i cuprensi fino attorno al periodo del primo conflitto mondiale.

Una comunità eretica risiedeva a Fabriano e anche qui prese il nome di «congregazioni della barilotta» , sempre a seguito dell’uso suddetto.

Dalle schede del Mabillon si rileva che il nome latino dato ai Fraticelli era anche quello di Barbotani, e in volgare Barbozali, ma ciò forse per corruzione linguistica o errore di trascrizione.

Si accertò inoltre che la loro vantata povertà esisteva solo in teoria, poiché possedevano a Castelbellino, a S. Marcello e a S. Cassiano, case e terreni, per cui giustificata era l’ accusa di Giacomo della Marca che li aveva detti ricchi .

Tentarono di eliminare lo stesso Giacomo, propinandogli, come vuole la leggenda, veleno in un calice che presenta ancora tracce di corrosione e più volte assoldarono sicari perché lo eliminassero. Lo stesso santo afferma che i suoi avversari diedero duecento ducati «contra me in Maioretto» e ne pagarono cinquecento per uccidere Giovanni da Capistrano.

 

La condanna della setta dei Fraticelli

 

Qualunque siano state le condanne di eresia da parte della Chiesa e le pene inflitte ai Fraticelli dalle leggi del tempo, le parole più atroci contro di loro restano quelle di S. Giacomo della Marca:

 

«Voi gridate coi giudei: muoia, muoia, uccidi, uccidi, come faceste del Beato Angelo dell’ordine di Camaldoli, il quale perseguitava la vostra maledetta setta. La cui morte, come degno sacrificio offerto a Dio, per difesa dell’immacolata fede di Cristo lo ha giustamente accettato e ha dimostrato, con evidenti segni di miracoli, essere a Dio sommamente grato» .

 

Approfittando della temporanea occupazione di Jesi da parte di Francesco Sforza, l’ eresia tornò a moltiplicarsi di nuovo nei castelli di Maiolati, Massaccio, Pojo (Podium Cuprae) e Mergo, dove evidentemente le radici non erano state estirpate, nonostante i precedenti severi provvedimenti pontifici e le predicazioni.

 

Il pontefice Niccolò V inviò allora di nuovo Giacomo della Marca, affiancandolo alI’altro valido difensore della Fede, Giovanni da Capistrano. Lo stesso pontefice si recò nell’estate del 1449 a Fabriano per celebrare il ritorno della città alla S. Sede e. allo scopo di estinguere definitivamente la setta, fece bruciare dodici Fraticelli. radunati da più luoghi.

 

Il Brandimarte ritiene poi, seguendo una lunga tradizione popolare, che i numerosi resti umani, rinvenuti attorno alle grotte di Frasassi, appartengano ai Fraticelli che su queste rocciose montagne, tra nidi di aquila, si erano rifugiati.

Giovanni Piccinino, invitato dal medesimo papa ad assumere la custodia di Jesi e del suo territorio, incendiò il Massaccio resosi colpevole di aver dato nuovamente ospitalità ai Fraticelli.