Luigi Bartolini – L’irrequietezza dell’età giovanile

La vita giovanile di Luigi Bartolini è caratterizzata da un’irrequietezza e da un rampollare d’interessi che lo spingono anche a cercare il luogo giusto ove studiare lontano dal paese natale. E sì che i marchigiani – con radici contadine profonde quante altre mai- sono di costume sedentario e di carattere tranquillo: e Cupramontana, dove egli nacque nel 1892, è nel cuore della Marca, uno dei castelli di Jesi, famosi per il Verdicchio.

Cupramontana è famoso fra questi castelli, certamente più orgoglioso del suo vino che di avergli dato i natali. Nelle Marche si è stati sempre assai poco espansivi con quelli di casa, per quanto si è aperti all’ospitalità. Si dura fatica a far eccezione per Giacomo (dei Leopardi di Recanati) e non perché abbia detto quel che ha detto dei concittadini. Bartolini si porterà dietro sino alla morte la nostalgia per la sua terra e una fortissima irritazione per i corregionali. In una poesia posta come dedica a Passeggiata con la ragazza (del ’30) è ricordata questa presenza suggestiva, completata, più tardi, da un’amara incattivita aggiunta.

Autoritratto Luigi BartoliniOttenuta la licenza della Scuola Tecnica di Jesi, va a Siena a frequentare l’Istituto di Belle Arti, ottenendo onorevolmente il diploma che allora (e per molti decenni ancora) si chiamava di «composizione artistica». Non è stato appurato perché il giovane fosse giunto a Siena quando aveva, anche poco lontano nella propria regione, buoni istituti analoghi.

Si può pensare che fosse già scattata quella incompatibilità con il padre e con i parenti di cui poi ebbe a scrivere di un estraniamento perché nella Capitale (Roma è stata sempre, per una ragione o per l’altra, una capitale) la colonia dei marchigiani è stata sempre fra le più numerose, numerosissima poi dopo Sisto V, da quando si cominciò a dire «che è meglio un morto in casa che un marchigiano alla porta». A Roma Bartolini va ad ascoltare all’università le lezioni d’italiano e di storia dell’arte tenute da Angelo De Gubernatis e Adolfo Venturi e trova tempo per leggere quello che gli capita e buttar giù le prime pagine. Torna ancora a Siena e nell’anno scolastico 1913-14 (a ventidue anni) consegue il diploma per l’insegnamento del disegno e si sposta poi a Firenze per seguire certi corsi di architettura e di anatomia e il disegno del nudo all’Accademia. Non bastandogli, segue le lezioni di medicina.

Conosce e diventa amico di Campana e di Soffici e si ferma a studiare le incisioni di Rembrandt e di Fattori, del quale si dichiarerà discepolo e la cui influenza è assai evidente in alcune prime lastre. Chiamato alle armi nel 1914, si farà tutta la guerra mondiale (le cui memorie scriverà, più tardi, in Ritorno sul Carso, del ’30) con un’appendice africana in Cirenaica, tornando in congedo solo nel 1919. L’insegnamento lo conduce da Macerata a Sassari, da Avezzano a Camerino, da Pola a Caltagirone. Intanto ha conosciuto altri artisti e ha pubblicato poesie e prose e tenuto le prime mostre.Dipinto di Luigi Bartolini Nel 1928 è presente alla Biennale veneziana e pochi anni dopo ha una «parete» alla Quadriennale romana. Ormai, insieme a Morandi, è considerato uno dei calcografi che ha rinnovato la tradizione italiana. Conferma la sua qualità di scrittore collaborando alle riviste più diffuse come «Il Frontespizio» di Bargellini e «Il Selvaggio» di Maccari, oltre ad alcune «terze pagine».

I guai con il regime di Luigi Bartolini

Arrivano i guai con il Regime. Non si è trattato (bisogna onestamente ricordarlo) di antifascismo militante ma della sua non celata insofferenza per quello che producevano, nel mondo artistico, il conformismo e «il bastone e la carota». Era in rapporto epistolare con alcuni fuoriusciti e in particolare con il critico Lionello Venturi che lo aveva in grande stima per il suo lavoro nell’acquaforte. Arriva, così, il confino (prima nella provincia di Avellino e poi in Alto Adige a Merano), e gli viene tolta la tessera del partito, ma l’una e l’altra punizione non sono sufficienti per farlo star zitto.

Il fascismo tollera la fronda e spesso cerca anche di servirsene (si pensi alla rivista «Primato» di Bottai) ma la lingua di Bartolini nei confronti di certi gerarchi, o di artisti amici di gerarchi, è micidiale. C’è in quello che scrive Bartolini una vis polemica bruciante (ed oggi non più praticata da alcuno) che eserciterà senza soluzioni di continuità giocandosi amicizie, suscitando reazioni e, non raramente, esagerando e contraddicendosi.

Torna a Roma nel 1938 riconosciuto fra gli artisti più significativi della sua generazione e scrittore di grande originalità. Ha già in attivo alcune centinaia di lastre e almeno un paio di dozzine di libri di prosa, di narrativa, di poesia saggistica e polemica.

La maturità

Con la maturità il lavoro si intensifica come il ritmo della pubblicazione dei libri nei quali spesso riprende e rivede vecchi testi che, come per le acqueforti, sono un nuovo «stato». Sino nelle ultime settimane di vita ha continuato a lavorare riguardando, correggendo i fogli dei disegni conservati a centinaia nelle cartelle: si spense il 13 maggio del 1963. Bartolini è stato un lavoratore davvero instancabile. Pochi fra gli artisti del nostro tempo hanno prodotto tanto e si può capire che questo possa aver influito talvolta sulla qualità: è inevitabile in un temperamento come il suo.

I titoli dei libri superano gli ottanta ed è difficile tenerne il conto preciso, così come avviene per le oltre 1300 lastre incise (Morandi, si faccia caso, è arrivato a 130, giusto un decimo) e il numero imprecisato di quadri. Se si aggiunge la mole enorme della corrispondenza tenuta con amici (e nemici) e conoscenti, si ha l’impressione di dover fare i conti con un uomo che riposava soltanto cambiando di lavoro. Cito la corrispondenza perché Bartolini passava dalla notizia o dalla pura comunicazione al livello letterario- creativo: con tutto il temperamento estroverso e appassionato, tumultuoso e irascibile, ironico e delicato.

In Bartolini il carattere pacioso (avrebbe detto Baldini) e remissivo del marchigiano è esploso contro tutto e contro tutti con la furia di chi non vuoi salvare nessuno nel gioco al massacro. L’annosa polemica con Morandi, che aveva chiamato «Ulderico il re della bottiglia» (trovando il titolo da una gigantesca insegna di un vinattiere di Via di Ripetta), in realtà copriva l’ammirazione che poi confessava in privato. «Morandi ha sparso le sue boccette da rosolio dovunque. Ed attualmente -in coerenza alla sua altezza (che dice, per furberia, di avere a schifo il denaro) -le fabbrica in serie di centinaia e, tutte, pallidine pallidine allo scopo di “spiritualizzarle” sempre più» (Il fallimento della pittura, 1949, pag. 47).

Sparava nel mucchio e ne salvava pochi (Ungaretti: «un poeta degno di nessuna stima, un fenomeno dell’ignoranza critica degli italiani» ) fra i moderni e contemporanei, Campana, Modigliani, Rouault; con quest’ultimo affermava d’avere in comune la forza del colore puro. Ci fu una stagione in cui, per dimostrare la propria versatilità e di non essere un «manierista» come Morandi, incise alcune lastre morandiane; naturalmente ne vennero fuori pezzi bellissimi che nel contenuto (fiori e pacate nature morte) «morandiani» potevano sembrarlo, ma che erano irreversibilmente bartoliniani della maniera «bruna», secondo la distinzione che faceva con la maniera «bionda». Oltre l’irascibilità che talvolta erompeva in irrefrenabili momenti di collera, a parte la maniera esuberante e rumorosa di fare il proprio atto di presenza, malgrado le intemperanze e le idiosincrasie nei riguardi di chi secondo il suo modo di giudicare non lo avesse capito, gli restava nel fondo dell’animo una sincera ed insospettata generosità, sapeva uscire da quei suoi stati di irata eccitazione con momenti e parole di cordialità straordinaria e delicatezza inusuale.

Commuovono ancora le pagine e le poesie scritte per la donna fedele, la «Santa Anita», la madre della sua Lucianella per la quale scrisse versi di toccante tenerezza. Era restato nel suo carattere qualcosa di popolaresco e di naturale; la sensibilità piena, acuta si congiungeva con una sensualità impetuosa, il che non escludeva l’interiore capacità di contemplare le cose, l’animo degli altri e la segreta poesia della natura.

La letteratura

Dipinto di Luigi Bartolini

La letteratura di Bartolini nasce, tutta, da questa condizione e dalla sua giornata, dal confronto costante con la propria esistenza. Ogni libro costituisce un momento o un evento, un capitolo o un paragrafo della propria biografia. Anche il gesto più umile e di routine, anche quello che è abitudine diventa materia del descrivere: da quando se ne va solitario per i campi, a caccia, o a caccia di immagini con la tavolozza e qualche lastra da incidere, agli incontri con il prossimo e, naturalmente, ricercando nella memoria che, illuminata dal rimpianto o dalla nostalgia, compie una sorta di trasfigurazione del tempo. Sono i paesaggi della sua infanzia e dell’ adolescenza, le fontane e i lavatoi dell’Esinante, i campi con le messi, i boschi ed i silenzi nei quali si immerge come a trovare una primigenia liberazione. E poi l’amore, le donne, ninfe lungo 1 fiumi e nei campi (o demoni nelle città che corrompono), oppure i personaggi degli incontri in galleria o nel mercato o nei negozi.

A Bartolini basta girare lo sguardo intorno per cogliere la giusta ispirazione; così come del resto basta una goffa pianta grassa che cresca in un barattolo per ispirargli una stupefacente acquaforte. Si può pensare che il suo autobiografismo sia una vocazione istintiva che attinge alla passione o ai sentimenti, e non altro. Penso che questo sia un giudizio limitativo e radicalmente sbagliato. È vera la naturalezza del suo scrivere come lo è la naturalezza del suo disegnare ed incidere, ma è anche vero che alle spalle c’è una cultura assorbita, un’abitudine alla lettura, una conoscenza di autori, di pittori ed incisori che egli non ha mai cessato di osservare, di capire e, soprattutto per gli artisti, di conoscere nella parte più segreta della loro arte. li che, per quanto concerne l’arte dell’incisione, di segreti ne ha tanti e peculiari. In una pagina qualsiasi, poesia o prosa che si abbia davanti, è avvertibile quella che De Robertis chiamava la sua «disperata felicità».

Cito questo riferimento di una recensione del critico fiorentino perché è poi una stroncatura; si riferisce ai racconti di Passeggiata con la ragazza: «non so, oltre quel primo fuoco, a che s’accenderà domani l’arte sua. Per ora pare lo scoppio, in pieno, d’una sensibilità a lungo trattenuta, che in tutto il libro ha potuto darci una cosa direi perfetta, una cosa giovane: al di là e al di qua ancora è materia greggia»; l’errore derobertisiano era soprattutto nel particolare riferimento alle acqueforti «dove mi par ci sia più volontà che felicità, L ‘aria, che lì manca, se l’è presa tutta la scrittura» (Scrittori del Novecento, 1943).

La costruzione stilistica di Bartolini

La stessa costruzione stilistica di Bartolini si adegua al rapporto con se stesso, interlocutore e personaggio: costruzione a spirale che si allarga in una sorta di ritmo senza fine compiuto con scioltezza. È lui a spiegarcelo: «La mia opera è autobiografica. lo non ho fatto altro – dipingendo, scrivendo, incidendo- che domandare, a me stesso, della grazia. Senza di che non avrei saputo come lo stare al mondo. Credo, anzi, che l’opera d’arte -oggi che i musei sono pieni delle accademie di tutti i secoli -valga soltanto come testimonianza del modo -di un individuo d’eccezione -di concepire lo stare al mondo; di concepirlo e di metterlo in atto; ossia di scolarsi la propria bottiglia di vin santo; meno quando si cade in polemica perché allora la polemica è un arte che si vive in due o in più di due […] Intesi, infatti, la parola “polemica” nel vero senso dei Greci antichi» (nel catalogo per una mostra a Rimini nel ’67). Il pieno riconoscimento della sua arte e della sua letteratura arriva intorno al 1930; anno di grazia per la pubblicazione di Passeggiata con la ragazza e Ritorno sul Carso.

Il primo è una raccolta di dodici racconti con accompagno di riproduzione d’acqueforti (riprese sulla carta normale sono illeggibili e da qui forse la negazione di De  Robertis). È un libro cordialissimo con i temi dell’elegia e dell’amore e della rappresentazione anche caricaturale o della polemica; è un libro con in nuce tutte le sue tematiche: «Gli altri scrittori» dice in un inciso «quando tessono i loro racconti, non cercano che d’intricare la trama, raddoppiarla, torcerla. Qui invece, non racconterò altro che come successero le cose. E la gioia è sempre laddove può essere senza accidenti, o tramezzi».

Nel Ritorno sul Carso c’è la memoria della guerra che lo scrittore ricorda senza una frangia di retorica  concedendosi qualche spavalderia personale. Bartolini poesie ne ha scritte sino dal 1911 (I parenti), riprese poi nel 1924 in una seconda raccolta, Il guanciale, che contiene una rarità: una poesia futurista e una lettera del pontefice del futurismo, Mari netti. Una curiosità perché, in seguito, non tralasciava occasione per dire cose di fuoco contro Marinetti e i futuristi e strappando dalle copie che gli erano rimaste del volumetto il… corpo del reato: la poesia e la lettera di Marinetti medesimo. Comincia con il ’30 anche la sua presenza critico-saggistica e di libellista: nel Ritratto di Chiacchiarelli stronca senza pietà il padre del rondismo, il quasi-conterraneo Cardarelli e seguirà poi, in concomitanza con il lavoro letterario, con scritti -solo per citarne alcuni- su Modigliani e Dino Campana, Manzù e Orneore Metelli, Van Gogh e Ligabue e persino con brevi saggi di carattere civile e morale nell’immediato secondo dopoguerra.

Naturalmente non sempre i suoi saggi sono stroncature, anche se la felicità critica di Bartolini sta nella stroncatura. Non si possono ricordare qui tutti i libri di Bartolini (il che sarebbe anche inutile) ma va sottolineato che resta, anche nei momenti più duri del tempo, fedele alla vocazione di «poeta angelico» come egli si definiva un po’ per provocazione e un po’ perché cercava di non disperare della bontà degli uomini e di non perdere il senso della bellezza del mondo e del vivere.

Nel 1943 pubblica la Vita di Anna Stickler, intensa storia d’amore non soltanto per la donna ma per la natura e la poesia. Ad Anna sono dedicate molte poesie e non poche acqueforti, alcune «classiche» nella sua storia d’artista e in quella dell’acquaforte del Novecento italiano, che lo confermano un eccezionale ritrattista di donne. Dell’età matura un altro libro rappresentativo e composito è Il mazzetto (del ’59), antologia ove lo scrittore accosta brani di prosa e di memoria a poesie e pensieri, sfoghi critici a frecce polemiche. Per i testi poetici basterà ricordare raccolte riassuntive come Pianete (del ’53) con la prefazione di Spagnoletti che cerca di vedere i precedenti; facendo il nome di Cecco Angiolieri si ritrova una ricusazione violenta di Bartolini: «Commento alla “storia” di Spagnoletti», così che le poesie godono di una doppia introduzione.

È ancora lo stesso critico che ad un anno dalla morte cura tutte le poesie composte nell’arco di oltre mezzo secolo (Poesie 1911-1963): «La sua opera è là, con i suoi difetti e le sue qualità eccezionali; e quella poetica in ispecie, nella quale volle rispecchiar se stesso interamente». Anche per le poesie, così come per la prosa, indicare ascendenti e parentele è assai difficile e, saltando ermetici e rondisti, si può dire che i meno lontani sono Campana e Saba anche se non c’è ne la folgorazione campaniana ne l’intensità dolente del poeta triestino. Si tratta ora, alla distanza di un quarto di secolo dalla morte, di leggere criticamente con maggiore lena perché, come ha detto assai recentemente in un bel saggio Fabio Ciceroni, «non è nata ancora per lui la doverosa stagione degli encomi o delle esaltazioni, delle lodi a buon mercato o almeno delle rasserenate riparazioni» (Ezio Bartocci-Fabio Ciceroni, Luigi Bartolini, il mio libero nulla, Fabriano, 1987, pag. 34).

 Bartolini non combacia con nessuna stagione della letteratura contemporanea e nella poesia si può dire che ha anticipato un certo stile discorsivo prosastico tentato poi nella seconda metà del Novecento. Si potrebbe azzardare che ha adoperato nella poesia la modulazione popolaresca, come nella prosa quella della fabulazione con la sua immediatezza.

Toccando questo aspetto si può rischiare di essere fraintesi perché il tasto di una pretesa popolarità può far pensare, oggi, al realismo ed al populismo della letteratura «impegnata» (quella che, per intenderci, faceva squittire di gioia i sociologi delle lettere). Se c’è in Bartolini un andamento popolaresco è l’uso immediato dei fatti e il ricorso a certe accezioni specifiche del suo paese d’origine di sapore marchigiano-romano oppure per un’attrazione che dei termini colti si scopre talora nel dialetto.

Una trentina d’ anni fa Geno Pampaloni ha scritto una pagina molto acuta presentando un catalogo per una mostra di acqueforti: «La sua prosa è crepitante, miracolosamente in bilico tra l’ estro capriccioso e una sapiente classicità. Emilio Cecchi osservò una volta” come gli basti buttare sulla pagina qualche rozza parola ‘vino, amore, donna’, per evocare presenze tanto più vive, fragranti, complete che in autori maturi e consapevoli i quali non adoprano la realtà se non in via di mediazione”. E Bartolini ha scritto parecchie pagine non dimenticabili, ed una specie di romanzo (Ladri di biciclette) che è ancora una delle cose più riuscite e felici di questo dopoguerra».

La pittura di Bartolini

È incontrovertibile che la sua poesia, nella libertà delle cadenze, tocchi la maniera ora lenta ora spedita della prosa e che molti passi di prosa potrebbero benissimo essere scomposti in versi. Non si perde niente, poi, dell’autonomia dello scrittore e del poeta (o del saggista o del polemista) quando si ritrovano i termini della sua letteratura nelle acqueforti e nella pittura.

Ritratto di Luciana Bartolini figlia del pittoreNon si tratta, come osservava De Robertis, di un limitato «veder da pittore» e cioè osservare solo la crosta delle cose, ma di obbedienza a quegli impulsi per i quali poteva scrivere tutto un libro d’amore per Anna Stickler e poi una raccolta di poesie e incidere – sempre per lei -un buon numero di lastre. Di questa autonomia creativa (non l’acquafortista-scrittore o il poeta-pittore ma il pittore, l’acquafortista, lo scrittore, il poeta…) fanno fede i modi variabili sia delle incisioni sia della stessa prosa.

Basta accostare acqueforti o disegni di forte tratto caricaturale (al magistero di Fattori succede quello di Daumier, un altro incisore dell’Ottocento che Bartolini ha molto amato): penso alla distanza espressiva che c’è fra alcune lastre, a segno profondo e scuro ed a soggetto ironico, a confronto, ad esempio, delle « Violette» o della «Quercia bella» oppure, per stare al riferimento del libro che si presenta, alle descrizioni del milieu popolare di Roma e dei personaggi che lo riempiono alle pagine dedicate ad Anita e Luciana. (……)

                                                                                Valerio Volpini